Negli ultimi due secoli, e in particolare nei settanta anni appena trascorsi, gli abitanti del pianeta sono cresciuti a un ritmo esasperato e i loro consumi ancora più intensamente, così come i fabbisogni di materiali ed energia necessari per soddisfarli. Al punto che le emissioni dovute alla combustione di carburanti fossili, insieme al prelievo sconsiderato di ogni tipo di ingrediente utile alla produzione, hanno causato perturbazioni molto gravi all’assetto climatico globale, con la conseguenza ormai imminente di pregiudicare le possibilità stesse di sopravvivenza in vaste aree della Terra.
Un simile ritmo di crescita è stato sostenuto prelevando dall’ecosistema molte più risorse di quante esso fosse in grado di ricostituire, con l’effetto di un impoverimento complessivo delle “scorte” disponibili e prospettive di una ancora più critica rarefazione delle più pregiate e più richieste, come il suolo agricolo, l’acqua potabile, i minerali rari, il petrolio, ma anche la biomassa forestale, con il suo positivo contributo di assorbimento del carbonio presente in atmosfera.
Le conseguenze di questo saccheggio sono drammaticamente aggravate dalla scarsa efficienza dei processi che vengono alimentati con le risorse prelevate. A differenza di quelli biologici, infatti, i cicli tecnologici applicano un modello lineare che punta a sfruttare la risorsa solo fino a che ciò produce benefici di immediata utilità. Ne risulta un’enorme quantità di scarti, il cui contenuto residuo in materia ed energia è rilevante ma resta in gran parte inutilizzato, poiché il suo sfruttamento non viene ritenuto conveniente, e la cui gestione viene “esternalizzata” scaricandone i costi sulla collettività e sull’ambiente. Ciò causa ulteriori perturbazioni degli equilibri ambientali, in particolare quelli dovuti ai rilasci in atmosfera, nel suolo e nei corpi idrici di sostanze non biodegradabili e inquinanti. Questo modello, riprodotto sistematicamente per ogni unità di prodotto che viene realizzata, genera un effetto moltiplicativo che i metabolismi biologici e i cicli naturali non sono in grado di mitigare e che quindi vede via via accumularsi gli impatti sull’ecosistema.
Equilibri fragili
Anche se contrastata da qualche ostinato negazionista, la consapevolezza della gravità della situazione è ormai documentata, così come la sua forte dipendenza dalle attività umane. La condizione che ne deriva è quella di una estrema e crescente fragilità di tutti i sistemi, sia biologici che tecnici, sottoposti alle conseguenze impattanti del cambiamento climatico e a sempre più frequenti carestie di risorse vitali, quindi perturbati da stress di entità di volta in volta più rilevante, ma altrettanto difficili da prevedere, da prevenire, e ancor più da fronteggiare.
Fra i sistemi tecnici, quello dell’edilizia e delle costruzioni si trova in prima linea: per la posizione inevitabilmente molto esposta dei suoi manufatti e anche per l’enorme quantità di risorse di cui si alimenta e dalla cui disponibilità esso dipende, oltre che per l’importanza sociale che riveste la sua attività, che disponibili le infrastrutture fondamentali per la vita dei cittadini e il funzionamento dell’economia.
Ancora più di altri settori produttivi, quindi, l’industria delle costruzioni ha estremamente bisogno di convertirsi a un approccio più coerente con le esigenze di contenimento del prelievo di risorse e con la riduzione degli impatti indotti dalle attività umane sugli ecosistemi.
Per muovere rapidamente in questa direzione, la prima sfida investe la produttività del settore, che in tutta Europa – e l’Italia non fa eccezione- è storicamente molto più bassa di quella dei comparti manifatturieri e persino di quella del terziario. Gli analisti economici concordano nell’attribuire la causa di questa inefficienza alla bassa meccanizzazione e alla scarsissima informatizzazione, dovuta in buona parte al fatto che una quota ancora troppo alta del valore della produzione viene realizzato in cantiere, un ambiente produttivo in cui non si riescono ad applicare efficacemente le metodiche e le tecnologie digitali impiegate invece con successo negli uffici e nelle fabbriche.
E’ indispensabile, quindi, spostare la più grande quantità possibile di lavorazioni dal cantiere alla fabbrica, dove esse si svolgono al coperto, al sicuro, sono controllabili sul piano dei tempi, dei costi e della qualità, possono essere svolte applicando tutte le innovazioni consentite dalle tecnologie digitali.
Ciò apre per le costruzioni una prospettiva di evoluzione che porti il settore ad aumentare decisamente la sostenibilità dei suoi processi, cioè alla drastica mitigazione degli impatti che essi producono, per avviarlo progressivamente alla sua riconversione in chiave di circolarità.
Traiettorie di innovazione
Costruire sostenibile significa porre una grande attenzione ai temi delle risorse fisiche, ambientali e tecnologiche, alle questioni relative alla salute, all’energetica degli edifici e al controllo delle tecnologie e dei procedimenti costruttivi. Significa anche riorganizzare da subito i modi di costruire e fare funzionare gli edifici, per far sì che questi provochino un impatto meno destabilizzante sull’ambiente.
La sostenibilità richiede innovazione, perché mette in discussione il nostro “stile” costruttivo millenario, che concepisce gli edifici come oggetti monolitici virtualmente eterni. E anche perché impone di progettare ogni elemento costruttivo, e l’intero edificio, non solo preoccupandosi delle sue prestazioni in esercizio, ma anche in funzione della fase di fine vita, per azzerare gli impatti dovuti a dismissione, demolizione, riciclo.
Per dare contenuti concreti all’imperativo “costruire sostenibile”, alcune azioni sono prioritarie:
– impiegare materiali e componenti la cui produzione generi minimi impatti ambientali e “emissioni zero”, preferire quelli che impiegano risorse rinnovabili o che sono realizzati con residui riciclati;
– diminuire la quantità di materiali incorporati in un edificio, cioè ottenere le stesse prestazioni con un minore apporto di materia;
– diminuire drasticamente il fabbisogno energetico necessario a mantenere i livelli di comfort indoor (sia in regime invernale, che estivo) e utilizzare fonti energetiche rinnovabili per soddisfarlo
– assicurare una facile accessibilità a impianti e dispositivi di regolazione
– produrre e utilizzare componenti le cui singole parti costituenti siano facilmente separabili e sostituibili, e agevolmente riciclabili a fine vita
Obiettivo resilienza
Nello scenario di più lungo periodo, l’obiettivo ancora più sfidante è quello di adottare la resilienza come strategia a cui ispirare la concezione dei manufatti. Cioè, ispirarsi alle strategie di risposta alle sollecitazioni esterne adottate dagli organismi viventi e dai sistemi naturali non perturbati, basate su reattività, adattività, capacità di auto-riparazione di singole parti e tolleranza ai guasti. Questo approccio è quello che da sempre consente efficacemente ai sistemi biologici di sopravvivere in contesti ostili: non opponendo frontalmente alla sollecitazione una ancora maggiore resistenza, cioè pretendendo di mantenere l’equilibrio statico a qualunque costo, ma accettando invece di subire dalla perturbazione alcune conseguenze -quelle che saranno poi più facilmente risarcibili- cercando così di evitare quelle potenzialmente letali.
Un albero sollecitato dal vento fornisce un ottimo esempio di questa strategia: quando la sollecitazione subita degli organi principali – i rami e il tronco- si avvicina al loro limite elastico, foglie e fronde secondarie si lasciano progressivamente strappare: questo espediente riduce la superficie esposta alla pressione e di conseguenza l’intensità della sollecitazione. Se ancora non basta, il sacrificio si estende ad elementi via via più importanti, e persino qualche ramo principale può essere ceduto, pur di salvare il tronco dallo sradicamento, evento massimamente catastrofico, perché pregiudica la possibilità dell’albero di sopravvivere.
Nello scenario resiliente, il traguardo a cui riferire l’attività di progettazione sia degli edifici che dei loro componenti si sposta: invece che puntare alla ottimizzazione della configurazione dell’oggetto rispetto ad una condizione attesa, assunta come stabile o comunque prevedibile entro un limitato campo di variazioni, l’obiettivo diventa quello di conferire al manufatto la capacità di adottare diversi efficaci comportamenti resilienti durante la sua vita in servizio, in risposta a sollecitazioni ambientali variabili. Ciò richiede di fornirlo una attitudine adattiva, cioè di renderlo capace di risposte dinamiche agli stimoli, mettendo in atto con progressività una gamma di tattiche e azioni proporzionate alla sollecitazione. (Oguntona & Aigbavboa 2017)
La più immediata conseguenza di questo nuovo quadro di requisiti è la domanda emergente di dispositivi mobili da incorporare nei manufatti. La crescente preoccupazione per le implicazioni ambientali rende non più proponibili le risposte basate sulla motorizzazione di grandi elementi convenzionali, e orienta invece la ricerca verso applicazioni biomimetiche, che emulano i comportamenti della materia vivente alla scala nanometrica e quindi producono una marcata e “automatica” variabilità funzionale, morfologica e spesso anche di aspetto degli oggetti interessati.
In altri termini, il dinamismo non consiste più nell’azione di un attuatore meccanico che, ben nascosto alla vista, apre e chiude a comando una finestra in tutto simile a quelle di sempre, ma in coating fotocromici applicati estesamente sulle superfici di facciata e direttamente azionati dalla radiazione solare incidente, che fa cambiare la trasparenza del vetro fino a renderlo semiopaco. Oppure nell’applicazione di schermi solari movimentati da attuatori a cambiamento di fase, che espandendosi e contraendosi per effetto della temperatura dell’aria, regolano l’ombreggiamento della facciata in relazione all’irraggiamento che ricevono. (Loonel et al. 2013) O ancora, membrane di rivestimento esterno che assumono diverse geometrie al variare della temperatura a cui sono esposte, modificando così la sagoma volumetrica che dell’edificio viene percepita. (Maier 2012)
L’approccio resiliente non si esaurisce in applicazioni destinate alle pelli: i dissipatori deformabili adottano lo stesso approccio nei confronti delle sollecitazioni sismiche che agiscono sugli edifici, rendendone dinamiche e adattive proprio le strutture, cioè quanto del manufatto costruito ha più strettamente a che fare con la concezione tradizionale che lo vuole capace di resistere per contrasto alla sollecitazione, rimanendo immobile.